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I personaggi femminili nei film avventurosi hanno acquistato spazio: ma quando hanno un’identità propria e quando sono copie malriuscite di modelli maschili?
Uno dei primi a provarci fu George Lucas, il creatore di Star Wars: la sua Principessa Leia (interpretata dalla compianta Carrie Fisher) era una guerriera, una ribelle che si opponeva alla tirannia dell’Impero Galattico. Nel primo film della saga, che risale al 1977, Leia è prigioniera dei suoi nemici ma è una donna combattiva, fondatrice dell’alleanza che si ribella all’Imperatore. Nella scena iniziale de Il ritorno dello Jedi (1983) indossa un bikini ed è incatenata ai piedi del viscido alieno lumacoide Jabba the Hutt; ma scopriamo poi che era stata catturata nel tentativo di liberare Han Solo, prigioniero del lumacone, quindi durante una missione di recupero in piena regola, e in seguito sarà lei a uccidere Jabba, strangolandolo con le catene. Leia faceva quindi riferimento a uno stereotipo, ma poi finiva per ribaltarlo; anche se non poteva esimersi dall’essere protagonista di una storia d’amore, che forse si presumeva ancora obbligata per i personaggi femminili.
Coppia d’assi: Ripley e Connor
Pur riconoscendo alla Principessa Leia un ruolo importante, è però un altro film di fantascienza a cambiare radicalmente la storia del cinema dal punto di vista delle protagoniste: Alien (1979), che introduce il personaggio di Ellen Ripley (Sigourney Weaver), destinato a tornare nei tre sequel. Fra questi, è in Aliens – Scontro finale (1986), che la caratterizzazione del personaggio di Ripley viene particolarmente affinata e collegata, almeno in parte, al tema della maternità; proprio come nel frattempo era successo alla protagonista di Terminator (1984), Sarah Connor (Linda Hamilton), che doveva fuggire da un nemico implacabile e proteggere la sua discendenza. Entrambi i film avrebbero generato dei sequel: Sigourney Weaver ha ripreso il suo personaggio più volte, mentre Linda Hamilton ha partecipato solo a Terminator 2 – Il giorno del giudizio (1991) e al recente Terminator – Destino Oscuro (2019).
Ellen Ripley e Sarah Connor (e le rispettive interpreti) sono diventate vere e proprie icone degli action movie, avendo offerto al pubblico ruoli femminili caratterizzati da qualità come forza, intraprendenza, ostinazione, capacità di evolversi (soprattutto Sarah Connor che se nel primo Terminator cadeva spesso nello stereotipo della donzella in pericolo, nel secondo si era evoluta in una combattente di tutto rispetto). Ellen e Sarah inizialmente avevano tutte le caratteristiche della povera ragazza in fuga da un nemico spaventoso, e forse il fatto che fossero donne le faceva sembrare al pubblico ancora più fragili e indifese; quindi, a maggior ragione, era rivoluzionario il fatto che alla fine riuscissero a cavarsela e a diventare ciò che era necessario diventare. Per uscire dal seminato della fantascienza e trovare altri film basati su uno schema del genere, dobbiamo arrivare al 1986 con Oltre ogni limite (in cui la protagonista, una Farrah Fawcett in stato di grazia, deve difendersi da uno stupratore e serial killer facendo ricorso a sua volta a ferocia e crudeltà) e al 1989 con Blue Steel – Bersaglio Mortale (con una poliziotta, interpretata dalla convincente Jamie Lee Curtis, intenta a riscattare il suo nome e a difendere la sua vita da uno squilibrato). Gli xenomorfi di Alien e i cyborg di Terminator, alla fine, facevano meno paura di quello che è, talvolta, il nemico più minaccioso: l’uomo.
Quando la protagonista è il protagonista sotto nuove spoglie
Per il resto, se si considerano i film di maggiore successo degli anni Ottanta, sempre restando nell’ambito del genere avventuroso, ben pochi hanno coprotagoniste di rilievo. Per esempio, in Ladyhawke (1985) o in Blade Runner (1982) sono soprattutto i personaggi maschili a viaggiare, parlare, combattere; le donne hanno un ruolo nella storia, ma sono lontane dall’indipendenza di una Ellen Ripley o dall’evoluzione di una Sarah Connor. In cult come Ritorno al Futuro, Grosso guaio a Chinatown, L’attimo fuggente, Shining, Fuga da New York, Gli intoccabili, di personaggi femminili non vi è quasi traccia (a meno di voler considerare cult una dark comedy come Schegge di follia, in cui Winona Ryder interpreta una liceale fuori di testa). Troviamo protagoniste spigliate spostandoci nell’ambito della commedia(Un pesce di nome Wanda con Jaime Lee Curtis, Jumpin’ Jack Flash con Whoopi Goldberg, Victor Victoria con Julie Andrews) o del dramma (Veronika Voss con Rosel Zech, L’ultimo metrò con Catherine Deneuve). Da segnalare però uno dei primi esemplari di film che presentavano la versione femminile di cult già sperimentati al maschile: Red Sonja (1985, in Italia conosciuto come Yado), protagonista una guerriera appartenente all’universo narrativo di Conan il Barbaro, interpretata da una statuaria Brigitte Nielsen in una tenuta che prevedeva corsetto scollato, stivali al ginocchio, gambe e braccia nude – l’ideale per una persona che passa gran parte del suo tempo a combattere all’arma bianca, vero? La fisicità prorompente del personaggio era la ragion d’essere del film, che proponeva un personaggio scontato e poco approfondito.
Le esigenze di riscatto dei personaggi femminili negli action movies si confermano nel decennio successivo, ma non propongono ruoli particolarmente riusciti, tranne naturalmente la Clarice Sterling (Jodie Foster, 1991) del Silenzio degli Innocenti, che vede finalmente una donna complessa e ben caratterizzata al timone di un thriller inquietante (mentre Sharon Stone in Basic Instinct, 1992, ricade nello stereotipo della femme fatale). Film che cercano con insistenza di mettere le donne in ruoli di sfida al predominio maschile sono Nikita (con Anne Parillaud, 1990) e Soldato Jane (con Demi Moore, 1997), ma solo il primo dei due dà vita a un personaggio sfaccettato, mentre nel secondo la donna soldato è proposta in modo semplicistico: come era stato per Red Sonja, il tentativo di “convertire” al femminile ruoli tipicamente maschili si arena contro sceneggiature risicate e mancanza di approfondimento. Lo stesso succede ai film che lanciano Gina Gershwin (come Showgirls del 1995 e Bound – Torbido Inganno del 1996), la quale si appiattisce sul ruolo dell’icona gay, per l’esattezza butch, e a quelli con cui inizia la carriera Sandra Bullock (Speed del 1994, The Net del 1995), che riprendono il concetto della donna costretta a districarsi in situazioni di pericolo ma senza raggiungere una caratterizzazione davvero valida.
Alzano il livello film drammatici come Thelma e Louise (con Susan Sarandon e Geena Davis, 1991), Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (con Kathy Bates e Mary Stuart Masterson, 1991) e Lezioni di piano (con Holly Hunter, 1993), ma l’avventura in senso stretto si allontana, si fanno passi indietro rispetto al decennio precedente. C’è se non altro un guizzo nel 1999, rappresentato dal personaggio di Trinity (Carrie-Ann Moss) in Matrix, co-protagonista agguerrita e mai banale. Dall’Oriente arriva il capolavoro animato Ghost in the Shell (1995), la cui protagonista Motoko Kusanagi, fra sparatorie e inseguimenti, ripropone con profondità gli eterni quesiti sull’origine della vita, l’esistenza dell’anima, la ricerca dell’identità umana. E dalla Francia arriva Il quinto elemento (1997), che affida il personaggio complesso e tormentato di Leeloo a una giovane Milla Jovovich… la stessa che nel decennio successivo diventerà una star proprio degli action movie di puro intrattenimento.
Cadute di stile e intrattenimento senza pretese
L’inizio degli anni Duemila è illuminato da un capolavoro come Kill Bill (con Uma Thurman, 2003 e 2004), che sotto le spoglie di un classico revenge movie parla di prevaricazione maschile e della donna vista come poco più di un oggetto da possedere: il percorso di liberazione che Beatrix deve affrontare, al di là di katane, arti marziali e scene splatter, la rende un personaggio indimenticabile. Lo stesso si può dire, anche se l’impatto sulla cultura pop non è paragonabile, per la Maggie di Million Dollar Baby (con Hilary Swank, 2004) che affronta il tema del rapporto mentore-allieva e dell’eutanasia. Più che dimenticabili, invece, sono diversi film d’azione al femminile usciti nello stesso periodo: da Tomb Raider (con Angelina Jolie, 2001) a Resident Evil (con Milla Jovovich, 2002), adattamenti degli omonimi videogames, dall’horror-fantascientifico Underworld (con Kate Beckinsale, 2003) ad Aeon Flux (con Charlize Theron, 2005), quest’ultimo versione live poco riuscita di una buona serie animata, per chiudere con i deludenti Catwoman (con Halle Berry, 2004) ed Elektra (con Jennifer Garner, 2005), dimostrazioni eclatanti che non si possono ottenere film supereroici al femminile ostinandosi a considerare Catwoman la versione sexy e felina di Batman, ed Elektra la versione sexy e ninja di Daredevil.
La cosa interessante è che prodotti “onestamente trash” come Resident Evil and Underworld hanno però generato un ricco franchise con diversi sequel e/o prequel, confermando a oltranza le interpreti nei loro ruoli e rendendole molto amate dai rispettivi pubblici di riferimento, che dopotutto non chiedono altro se non dei buoni film d’azione, votati all’intrattenimento e senza ambizioni psicologiche o tematiche – quelle che invece si auspicava potessero emergere da Catwoman ed Elektra, soprattutto considerando la profondità e le tante sfaccettature delle rispettive controparti a fumetti.
La rinascita delle vere protagoniste
Bisognerà aspettare il 2012 per ottenere un nuovo momento cruciale, forse paragonabile a quello che furono Alien and Terminator negli anni Ottanta: e cioè l’uscita della saga di Hunger Games, un fantasy distopico la cui protagonista (complice anche l’eccezionale bravura di Jennifer Lawrence) ha finalmente un carattere difficile, mutevole, capace di crescere. Inoltre, il 2009 aveva già visto l’introduzione, in Iron Man 2, del personaggio di Black Widow (Scarlett Johansson), che avrebbe aperto la strada a una serie di “colleghe” destinate a popolare il Marvel Cinematic Universe (Wanda Maximoff, Valchiria, Captain Marvel, Okoye, Peggy Carter, Gamora, Wasp, Shuri, Nebula), alcune delle quali destinate ad avere il proprio film o la propria serie tv. E incredibilmente, su ciascuna di loro gli sceneggiatori hanno lavorato a dovere fornendo background, caratteristiche psicologiche, emozioni credibili – dando così un segnale anche alla concorrenza, che nel giro di poco tempo ha lasciato spazio ai film di Wonder Woman e di Harley Queen & the Birds of Prey.
Non sono mancati i passi falsi, soprattutto (tanto per cambiare) nel caso dei remake al femminile di pellicole storiche, senza un lavoro adeguato sui personaggi e sulle loro motivazioni ed evoluzioni: è il caso di Ghostbusters (con Melissa McCarthy, 2016) e di Attenti a quelle due (con Anne Hathaway e Rebel Wilson, 2019), mentre è andata meglio a Ocean’s Eight (con Sandra Bullock e Cate Blanchett, 2018) e a Men in Black: International(con Tessa Thompson e Chris Hemsworth, 2019). Charlize Theron ha azzeccato un colpo dietro l’altro con Mad Max: Fury Road (2015), Atomica Bionda (2017) e The Old Guard (2020), dimostrando che per dare spessore a un personaggio non servono dialoghi altisonanti ma basta una sceneggiatura che lasci emergere sguardi e intenzioni; al contrario, Scarlett Johansson ha inciampato sul pretenzioso Lucy (2014) e su un remake banale di Ghost in the Shell (2017). Zoppicanti sotto il profilo psicologico anche alcuni film d’azione estrema come Peppermint(con Jennifer Garner, 2018), Anna (con Sasha Luss, 2019) e La sentinella (con Olga Kurylenko, 2021).
L’elenco non è esaustivo; avremmo potuto citare (nel bene o nel male) versioni moderne di fiabe classiche come Biancaneve e il Cacciatore o Alice in Wonderland, adattamenti live di classici disneyani come Maleficent o Beauty and the Beast, film distopici come V for Vendetta o Divergent, cult orientali come The Assassin o La Tigre e il Dragone, pellicole di fantascienza classica come Contact o Arrival; e non abbiamo nemmeno accennato al variegato mondo delle serie tv. Quello che conta è che, finalmente, storie di azione e avventura con protagoniste femminili sono sempre più frequenti e aiutano le nuove generazioni a interiorizzare il messaggio della parità di genere in modo spontaneo ed efficace.
Valentina Semprini