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18 Febbraio 2021George Orwell, tutti i suoi romanzi sono ora liberi dal copyright
1° gennaio 2021: scade il diritto d’autore su varie opere della letteratura internazionale. Tra queste, l’intero corpus di George Orwell, ora di dominio pubblico
Succede con l’inizio di ogni anno: un pugno di autori e titoli che fino al giorno prima erano soggetti alle leggi del diritto d’autore, guadano il fiume e diventano di dominio pubblico. Quest’anno tocca a due pezzi da novanta come George Orwell e Cesare Pavese, oltre che a diverse opere di altri autori, ad esempio Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald e Il dottor Arrowsmith del Premio Nobel Sinclair Lewis.
Come funziona il diritto d’autore?
Funziona in diversi modi, di cui i principali sono tre.
In alcuni paesi, come la Cina e il Canada, la legge sul copyright prevede che le opere di artisti e scrittori diventino di libero accesso e libera pubblicazione dopo 50 anni dalla morte dell’autore; naturalmente, a patto di pubblicarli con il nome del suddetto autore, senza quindi spacciare quei testi come fossero opere altrui (perché altrimenti il discorso ricadrebbe non più sotto la legge relativa al diritto d’autore, bensì sotto quella relativa alla paternità dell’opera, che è altra cosa). Tale durata rispecchia quella stabilita nel 1886 nel corso di un’iniziativa promossa nientemeno che da Victor Hugo, ovvero la Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, a cui ben 164 nazioni del mondo avevano aderito. La tutela è automatica, senza obbligo di registrazione o avviso di copyright.
La stessa Convenzione di Berna, però, aveva stabilito che i 50 anni erano una sorta di “minimo sindacale”, e che ai singoli paesi rimaneva il diritto, qualora lo avessero ritenuto opportuno, di estendere la durata. È quello che ha fatto la Comunità Economica Europea con la direttiva sull’armonizzazione del diritto d’autore nel 1993, stabilendo che in Europa, affinché le opere di un dato autore diventino di pubblico dominio, devono passare 70 anni dalla morte di quell’autore (nel caso di opere scritte da più persone, i 70 anni si calcolano sull’ultimo autore sopravvissuto). Anzi, in realtà devono passare 70 anni più qualcosa, perché il copyright cessa il 31 dicembre del settantesimo anno, a prescindere se l’autore sia deceduto a gennaio, a giugno o a novembre. È per questo che il 1° gennaio di ogni anno, nell’ambiente legislativo ed editoriale, viene detto Public Domain Day. Ed è per questo che oggi si può parlare di pubblico dominio, in Europa, per le opere di Orwell e Pavese, morti entrambi nel 1950.
Poi c’è tutto il (complicato) capitolo riguardante gli Stati Uniti d’America
Negli USA, le leggi sul copyright si basano non sulla data di morte dell’autore, ma sulla data di prima pubblicazione dell’opera; e sono state condizionate per ben due volte da… Topolino. La prima occasione fu nel 1976: in quel momento, vigeva una legge secondo la quale il copyright poteva durare un massimo di 56 anni dalla prima pubblicazione dell’opera. Considerato che Steamboat Willie, il primo cortometraggio con protagonista Topolino, risale al 1928, il topo disneyano avrebbe dovuto diventare di dominio pubblico già nel 1984, se non fosse che otto anni prima del fatidico momento, quindi nel 1976, il Congresso americano modificò la legge, avvicinandosi agli standard europei e passando così da 56 a 75 anni di durata del copyright (sempre tenendo come riferimento la data di prima pubblicazione). Ne conseguì che tutte le opere pubblicate prima del 1922 erano di pubblico dominio, mentre per le altre si sarebbero dovuti aspettare 75 anni. A Topolino, dunque, sarebbe toccato nel 2003, e già questa modifica della legge pare sia stata dovuta a forti pressioni della Disney sul Congresso.
La storia si ripete nel 1997: la Disney vede avvicinarsi l’anno fatale per il termine del copyright sul prezioso topo (a cui sarebbero poi seguiti Pippo, Pluto, Paperino eccetera) e torna a fare pressioni politiche per ottenere una proroga ulteriore, arrivando a finanziare le campagne elettorali dei membri del Congresso di cui volevano influenzare il voto. Il disegno di legge con cui la durata del copyright viene prolungata di altri 20 anni, passando così da 75 a 95, passa sia alla Camera che al Senato senza dibattiti né consultazioni. E questa legge, che ufficialmente si chiama Copyright Term Extension Act (CTEA) ma è nota ovunque nel mondo come Mickey Mouse Protection Act, è attualmente in vigore. Per questo motivo, adesso che siamo all’inizio del 2021, negli Stati Uniti sono diventate di pubblico dominio opere pubblicate per la prima volta nel 1925.
Gli editori italiani e George Orwell
Fino all’anno scorso, la casa editrice italiana che deteneva in esclusiva i diritti per pubblicare le opere di Orwell era Mondadori, che di recente ha ripubblicato i due romanzi più noti dello scrittore britannico, La fattoria degli animali e 1984, con nuove traduzioni (rispettivamente di Michele Mari e di Nicola Gardini) e nuove edizioni particolarmente curate, che ammortizzassero l’effetto “pubblico dominio” del 2021. Infatti, allo scattare del Public Domain Day, vari editori italiani hanno immesso sul mercato le loro traduzioni ed edizioni dei capolavori di Orwell: basta digitare La fattoria degli animali oppure 1984 sulla maschera di ricerca di un qualsiasi store online di libri e vedere quante diverse copertine emergono nei risultati (c’è anche chi, come Garzanti, accorpa più libri in un solo volume tematico dal titolo Trilogia della libertà: Omaggio alla Catalogna-La fattoria degli animali-1984).
Ma perché Orwell è un autore così ambito?
Perché, nonostante le sue opere più importanti risalgano agli anni Quaranta del secolo scorso, Orwell è ancora terribilmente attuale e difficilmente smetterà di esserlo. I suoi romanzi, e ricordiamo che oltre ai due principali ce ne sono altri diciannove, costituiscono un corpus di long-seller con un pubblico variegato: non solo semplici lettori ma storici, filosofi, studiosi, sociologi, linguisti, perché i livelli di fruizione sono così tanti da permettere letture sempre nuove e sempre diverse, ogni volta collegando un dettaglio in più o scoprendo una nuova linea tematica.
Con la sua critica ai totalitarismi, raffinata e ironica ma comunque tagliente, Orwell si pone al di sopra dei singoli contesti storici e geografici. Se è vero che 1984 e La fattoria degli animali nascono come metafore del regime sovietico (il che provocò fra le altre cose diversi rifiuti editoriali e, a pubblicazione avvenuta, critiche al vetriolo inclusa, in Italia, quella di Togliatti), mettono però in luce le contraddizioni, gli eccessi e le crudeltà che qualunque totalitarismo, nasca esso da un estremismo di destra o di sinistra, mette in pratica: silenziare chi la pensa in modo diverso, influenzare l’opinione pubblica, diffondere interpretazioni a poco a poco sempre più tendenziose della realtà, approfittare delle persone ingenue, cercare utili alleati esterni, accentrare ai piani alti le risorse e il potere.
Orwell insomma fa uso di simbologie facilmente adattabili a contesti e paesi diversi e arriva a immaginare strumenti di persuasione sottili, come la Neolingua (in originale Newspeak, “nuovo parlare”) in 1984 che, riducendo i vocaboli, semplificando i costrutti verbali e limitando grammatica e sintassi, finisce per rendere banale e povero non solo il parlato, ma anche il pensiero stesso, che non ha più modo di esprimere concetti complessi o diversi rispetto a quelli imposti dal potere.
L’attualità del pensiero orwelliano, inoltre, va oltre la critica ai totalitarismi intesi dal mero punto di vista nazionale e politico: elementi come, appunto, l’impoverimento del linguaggio o la dipendenza psicologica del singolo da qualcuno (un Big Brother o chi per lui) che gli tolga il fardello della scelta, del ragionamento, del pensiero e infine dell’azione, possono nascere in tanti modi. A volte il dittatore non è un generale dell’esercito o un capo politico: può essere un’azienda monopolista, un social network male utilizzato, un’esigenza economica portata a conseguenze estreme. Solo cultura e pluralità di idee possono, se non sconfiggere questi fenomeni, almeno arginarli; e Orwell, che pure non era un ottimista, lo sapeva bene.
“Noi siamo impegnati in un gioco che non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto.”
George Orwell, 1984
Valentina Semprini